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Il drago e la farfalla

Dell'orbita avea il gran rege splendente
appena varcato il soglio del guardo,
il passo cedendo al violetto gagliardo
che l'aere dipinge con vivo gradiente:

era il momento in cui il buon campesino
stanco ritorna dall'ara labrata,
i frutti godendo dell'ardua giornata,
cenando dinanzi a una coppa di vino.

Ma pur era l'ora del dolce risveglio
per corte sidèrea, che placido aliento
infonde alla notte, con luce d'argento
ispirando ogni cor a sperar per il meglio:

dai monti che ergèvansi sul gran orizzonte
facevan le stelle via via capolino,
mentre, su un fiore, un gentil farfallino
igual si destava con tòrpida fronte.

Del cammin che ai mortali concèdersi suole,
metà avea trascorso, senza pensieri,
con passiòn cimentandosi in Arte e mestieri,
pur aìda recando a quant'alma duole;

proprio quel giorno s'era ivi posato,
da lungi volando, in quanto sua aiuola,
per anni gioconda, schiacciata da suola
fu di lupastro da agnel camuffato:

il geniale sovrano, di somma eleganza,
che decenni regnato avea sul giardino,
altrove ido era, e ormai un'acquitrino
sol preda restava di futil baldanza.

Riapparvegli in mente il buon giardiniere,
di taglia minuta, che, in tanta burrasca,
protetto ogni fior, quanto poté, sotto frasca
avea, con onor, come gran cavaliere:

per ben oltre un'ora l'avea salutato,
lagrimoni celando di densa tristezza,
i colori briosi da bigia fortezza
con sé via portando, nel dì del commiato.

In questi ricordi un poco fu assorto,
fisso mirando, quel farfallino,
mentre il violaceo rossor vespertino
al nero incupiva, tra ombre contorto;

ma la volta celeste, d'un'arpa armoniosa
al suon cristallino, annunciò l'apparire
dell'eterea regina, che il buio fiorire
d'argento facea qual face radiosa:

allor spiccò il volo e planò dolcemente,
dalla brezza sospinto, sovra quei prati
che infuocato meriggio avea ben tostati
e ancòr tepor davan dal suol che fu ardente.

Da poco andàvasi lieve librando,
quando il brillìo di selva fatata
destò sua attenziòn, viemmèn frastornata,
sì che moto là volse, curioso mirando.

Affabil, primero, signor pensatore
d'accento foresto, che direi mite,
gli si fe' incontro, e da abisso di Dite
fino all'Olimpo parlaron per ore,

dello Stoicismo laudando virtude,
mentre altro sapiente, su gran tomi arcani
dissertava d'oscuri misteri, che umani
comprender non puoten, del Vuoto in palude.

Nel bosco addentratosi, di Babbo Natale
vide i grand'elfi, che ardui e intricati
solvevano còmputi, a tratti adiuvati
da intelligenza che non era animale:

colossal formule, sofisticate,
certe mostravan d'ognuno i regali
che, in sola notte di fiocchi invernali,
portare dovèansi alle case addobbate!

Il sovrintendente, alla nascita, il vello
a Natura avea reso, per ingegno avere
e stile brillante, ma vero messere
era ogni elfo e tenìa buon cervello:

di leggendar lega uno era parte,
d'un altro i geni avrìan gigante scalfito,
altro, pur giovin, di talento era inclìto,
e un di pittura dominava bell'arte!

Chissà! Forse il Fato sue trame sinuose
per flusso distinto avrìa diramato
se fosse in lor grèmio il farfallìn atterrato
prima che orribil semàn tempestose

atterrito avessero tutta una landa,
con uno tsunami di brutalità
tra milion di fratelli, per la crudeltà
d'usurpatrice, demònica banda!

Ma in quei lieti tempi ancòra non porsi
tal ansia parea, e il protagonista
procedette oltre ancora, e presto alla vista
gli si fecer le sagome niente men che di orsi!

Uno era bianco, e in vaso di vetro
la sabbia girava per contare l'ore,
l'altro era scuro e di sommo pittore
del chiaro il bell'uso imitava e del tetro.

Quand'ecco che apparve, qual fòlgor repente,
visione che in minio parea cesellata:
immensa radura, di luce inondata,
ove facèasi realtà trascendente,

ché piano sen gìan, per l'aere flottando,
bol di sapone, dai colori iridati,
che dei mortal tutti i sogni mancati
seco traèvano, in eterno serbando.

Nel mezzo stendèasi ridente laghetto
di rosee ninfee d'inebriante fragranza,
che all'alma ispiravan virtuosa baldanza,
a guisa d'ambrosia degli dei nel banchetto;

al geometrico centro, su piccìn isolotto,
radici avea poste un'immensa sequoia,
le cui dense fronde, di fiori e di gioia,
svettavan lasciando le nubi di sotto.

Fu allor che lo vide, sotto zenital luna,
con finissimo usbergo, in oro pregiato,
che raggio d'argento rifletteva dorato,
pace irradiando e dispensando fortuna:

un drago d'Oriente, che il verso dantesco
sol descriver potrebbe, assiso lì stava...
con seràfica grazia le stelle ammirava,
da tazza adornata sorseggiando tè fresco.

Oh, ciel! Prese timido a tentennare
il farfallìn, per cotanta maestade,
nonostante paresse che simile etade
tenessero i due, eppure un gran mare

li separava, ché a lungo viaggiato,
da Levante ad Occaso, avea il giovane drago,
allorché in biblioteca, qual antico mago,
tra mille volumi l'altro era stato:

due alme miràvansi, alla luce lunare,
che illusiòn crea ma il vero disvela,
al pari d'artista pingendo su tela
ciò che uman sensi non sanno spiegare.

«()(xiǎo)(xiǎo)(de)(péng)(you)(nín)(hǎo)(ma)?,
accòlselo il drago con soave eleganza,
senza da forza sua trarre arroganza,
anzi con voce che tesseva amistà;

«(qǐng)(nín)(lái)()(bēi)(chá)(ba)!» - amabile,
porse una tazza di buon tè pregiato
e tosto all'idioma in cui l'altro era nato
passò, conversando qual savio mirabile:

mille e più temi, dal serio al faceto,
videro insieme, e cristallizzato
il tempo al cor parve in istante fatato
ove fassi ogni sogno al guardo concreto!

Ahimé! Orribil rombo, d'atroce tempesta
dai tuon minacciosi già s'appressava,
eppure ciascun fiducioso sperava
che tanta ferocia placàssesi lesta.

Nessun bosco al mondo, per quanto incantato,
è senza difetti e furetto rissoso
talvolta s'incontra, o dal tono imperioso
gnomo ossessivo contro Arte adombrato:

alla fin, di ragion l'equilibrio quel punto
che tutti soddisfa si è sempre trovato,
ma da ali ciclopiche fu il cielo oscurato,
ché l'ìnfimo male era infin sopraggiunto:

più cupo del Nulla e dagli occhi di brace,
un drago mostruoso, di crueltà millenaria,
d'ogni dèmone il ringhio e pira incendiaria
da fauci sputava, svellendo ogni pace,

come divelto avea ulivi frondosi
d'un'antica terra, che ancòr lo maldice,
ché, giovine o veglio, ciascuno infelice
piangea pei feroci artigli bramosi!

Di quella orrenda bestia infernale
all'acida ombra appassiva ogni fiore,
mentre i suoi sàtiri a tutte le ore
irretivano alme per spingerle al male:

un circo abusivo di scimmie ammaestrate
che nemmeno più un volto avean da mostrare,
come automi ognor pronte, senza pensare,
ad eseguir ordini e ricever frustate!

Svanì il drago dolce, svanì la radura,
il bosco, la landa, ogni cosa sbranata
da nuvol fu, nera, che originata
s'avea da tal vista d'orror e paura!

Impaurito e sdegnato quanto mai prima,
pur libero esser volea il farfallino,
ché l'unico astro per lui del mattino
Libertà sempre fu, suo orgoglio e sua stima!

Solo udìasi, nel buio, il nefasto ululare
di iene balorde, financo dal bosco,
che sguaiate irridevan, con frèmito fosco,
le voci di quei che non potèano accettare

della belva infuocata il sadico agire,
al male ognor volto, tra fiamme e ruìna,
e Umanità preferìan a viltà belluina
che in massa sol trova sostegno all'ardire;

a questo poi aggiùngasi che amici assai cari
per anni o decenni, dal mattino alla sera
estranei divennero a lui che non era
di mostro infernal sui novelli annuari.

Soppesando le carte di Madama Fortuna,
tanto si sentì il farfallìn disgustato
che in volo s'alzò e, il bosco lasciato,
lasciò pur la landa e raggiunse la Luna,

dove pensare, con calma, al futuro,
nuove favelle e culture apprendendo,
la gioia nel mondo via via riscoprendo,
zelante forgiando un bel dì venturo;

eppure dall'anima un pensiero dorato
volle, su piume, ai venti affidare,
sperando che alfin lo potesse trovare
quel drago a lui caro, dal buon tè pregiato.